di Bruno Salvatore LUCISANO
Non c’è più chi avrebbe saputo, meglio di me, versare una lacrima d’inchiostro su quello che siete stato come poeta popolare ma soprattutto come uomo.
Proverò a farlo io, indegnamente, cercando di disegnare su questo foglio, la solitudine, la tristezza che mi assalgono in questo momento.
La vostra modestia, la vostra pacatezza, sconosciuta in questi tempi di civiltà computerizzata, la vostra educazione che avete imparato senza l’aiuto dei libri, perché i libri non servono a nulla se non si sa leggere. Ma voi eravate giustificato: Pasqualino è analfabeta!
Ma come fa a scrivere poesie, uno che non sa scrivere, si chiedeva la gente che vi ascoltava nelle piazze di mezza Calabria. Com’è possibile?
È possibile quando si ama la poesia come la propria vita stessa. Ripetere per una notte intera sei sette strofe per poi recitarle ad altri per farle mettere su un foglio, è esercizio che non ha spiegazione se non in un dono innato e miracoloso. Lo scorrere dei vostri versi con la precisione metrica di un letterato, avveniva non solo per il dono naturale per la rima, ma per un impegno e una dedizione che hanno solo una spiegazione: Pasqualino, voi eravate un poeta, voi siete un poeta perché nessun tempo cancellerà quello che avete lasciato, quello che avete scritto senza saper scrivere. Un miracolo.
La metrica come un ritornello preciso, come una cantilena.
Va via con voi, Pasqualino, un rappresentante straordinario della poesia del popolo. La poesia per gente semplice. La poesia che si…capisce. Va via con voi la modestia come regola di vita, la semplicità come scopo.
Se ne va per sempre, con voi, un “poeta in piazza”, un poeta amato e apprezzato dal compianto Pasquino Crupi.
Rimane, grazie a Dio, sui libri, la vostra poesia semplice e acuta, scherzosa e attenta, chiara e, a volte, illuminata.
Rimane il vostro ricordo come esempio di semplicità di vita.
“A nnu’ migranti ndi premunu u sangu/cumu racina intra du parmentu,/pecchì non simu genti d’artu rrangu,/e non jettamu mai…nu lamentu!”.
Buon viaggio Pasqualino.
A curtura – La cultura
Volìa i staju zittu, ma non pozzu,
criditimi daveru, no ncià fazzu,
quandu ci penzu mi dannu nu mmorzu,
però ora no ndavi chimmi fazzu!
A scola, fu pa mia, comu nu sonnu,
i rringu a crapa mi dettiru mpegnu,
ora ndavi na vita chi mi dannu
però mi tocca sulu i mi rassegnu.
Vi dugnu nu cunsigghiu si u pugghiati,
si nno, faciti vui, comu voliti:
s’aviti figghi, a scola mi mandati,
pecchì è sicuru ca non vi pentiti,
tra òmani si nota a differenza
non si poti pisari ca bilanza:
cu esti carricatu i tanta scienza,
e ccu è chinu sulu di gnoranza;
i certi a pinna nci pari nu jocu,
eu scrivu stortu chi paru mbriacu,
a curpa è du bisognu, m’avi focu,
comu curtura non pozzu i mi nnacu!
Vorrei stare zitto, ma non posso,
credetemi davvero, non ce la faccio,
quando ci penso mi danno un poco,
però, ora, non ho che farci.
La scuola è stata per me come un sogno,
mi hanno dato l’incarico di liberare la capra,
ora, è una vita, che mi danno,
però mi tocca solo rassegnarmi.
Vi do un consiglio, se lo volete prendere,
altrimenti fate come volete,
se avete dei figli, mandateli a scuola,
perché, sicuramente, non vi pentirete,
tra uomini si nota la differenza,
non si può pesare con la bilancia,
chi è caricato di tanta scienza,
e chi è pieno solo d’ignoranza;
per certi la penna sembra un gioco,
io scrivo storto che sembro ubriaco,
la colpa è del bisogno, maledetto,
come cultura non mi posso annacare
(dare arie).
LA CIMINIERA – Maggio 2022