di Michele DE LUCA
Briatico di una volta è un libro che suscita emozioni. Non bisogna essere briaticóti per suscitare quell’empatia che il testo determina, poiché la storia di questo piccolo paese è narrata non attraverso i reperti storici o archeologici e nemmeno con i dati del folklore, ma attraverso le storie dei suoi abitanti, d’ogni classe sociale. Uno spaccato di circa un secolo, il Novecento, attraverso quelle che, comunemente, sono indicate come eccellenze e che qui assumono la valenza della quotidianità, poiché i protagonisti, veri personaggi della storia, parlano delle loro ‘imprese’, piccole o grandi che siano, con la modestia dei saggi, e chi, per caso, non li ha mai conosciuti, prova quel sentimento di appartenenza che i calabresi esprimono con l’aforisma A ccu’ apparteníti?‘ Con chi siete accasato?, di chi siete parente?’, detto non per mera curiosità, ma perché attiva, empaticamente, un meccanismo di solidarietà, di complicità nell’essere della stessa stirpe, di soddisfazione nel riconoscersi in una comunità di persone dello stesso ceppo, e tante altre sensazioni, intraducibili nell’espressione dell’italiano!
Nella memoria collettiva – scrive Giovanni Sole, il noto antropologo calabrese – molte cose vengono perdute, altre dimenticate, altre inventate, ma non dobbiamo pensare che il tempo cancelli proprio tutto[Francesco di Paola. Il santo terribile come un leone, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, p. 12].
Nel testo di Vallone non c’è, però, nulla d’inventato, poiché le vicende che racconta sono reali, mentre le cose “perdute” ritornano alla mente dei suoi concittadini, come ‘u vapúri, una nave militare affondata durante la seconda guerra mondiale; oppure ‘a meravígghja, nel racconto di Péppi, il pescatore; oppure il cimitero degli animali di villa Bisogni. Ma risvegliano anche, in ognuno di noi, storie parallele, vissute o sentite dire, poiché sono i personaggi della microstoria che fanno girare il mondo!
In tutto questo il dialetto la fa da padrone, poiché uomini e donne, parlano la loro ‘lingua’, quella indicata con l’espressione ricorrente di cómu ti ‘mparáu(o‘mbizzáu) mámmita ô foculáru, tanto che non stupisce affatto la singolare vicenda diCíccu ‘u tedéscu, che detesta essere chiamato Francesco, preferendo la voce dialettale, che ha, peraltro, una valenza di classe, poiché indicava, nel passato, una condizione proletaria, in alternativa a Cícciu, riferito ai benestanti.
Dunque una storia collettiva, scritta con il cuore e con la mente!