2002 – 4FOGLI – ANNO I NR. 04

“ ‘U CICIARU  SUPRA ‘U  TAMBURRU ”

(OVVERO: I RICICLATI)

di Antonio Anzani

La vignetta di Mafalda

Sono varie le accezioni del sostantivo riciclaggio e del verbo riciclare: da quello di partenza attinente al mondo dell’industria – operazione con cui, terminato un ciclo di lavorazione, una parte delle materie prime originarie non ancora o solo parzialmente lavorate viene nuovamente immessa in uno degli stadi di lavorazione – o delle amministrazioni locali – riutilizzo di materiali o risorse che andrebbero altrimenti sprecati e sarebbero addirittura nocivi, come nel caso dei rifiuti solidi urbani che, previa raccolta differenziata, vengono riutilizzati evitando fra l’altro l’inquinamento – o è riferito al personale di una azienda al quale vengono affidati, previa riqualificazione nuove mansioni – o, ed è il traslato oggi più noto, rimettere in circolazione i proventi di attività illecite, cioè “ripulire il denaro sporco”  ed ancora: riutilizzare un vecchio vestito, riproporre un vecchio candidato.

Ma di tanti traslati i più accreditati ed aggiornati dizionari italiani, da me opportunamente consultati, non fanno alcun cenno, a meno non lo ritengano incluso nel riciclaggio dei rifiuti, un tipo di riciclaggio che non attiene alle candidature politiche ed amministrative, pratica non certo commentevole, ma, comunque, sottoposta al giudizio degli elettori; ma è riferito a quel sottobosco politico-amministrativo che, fatto come è di sterco (metaforicamente, s’intende)  si autoalimenta vegeta e prospera senza alcun controllo della collettività che sarebbe impossibile o quasi, ma con il beneplacido di quanti, detentori di qualsivoglia potere, non solo non lo stroncano ma se ne servono.

Un sottobosco molto folto e variegato, fatto di specialisti, come i bruchi e gli insetti del bosco, nell’arte di sopravvivere ad ogni temporale, pronti a danzare quella che Emilio Fede, in un suo recentissimo libro, ha definito “la samba dei ruffiani”.

Io non so se i bruchi emettono suoni, ma sicuramente scavano gallerie nella mota; gli insetti emettono suoni che potremmo omologare, prescindendo dalle varianti, in: tzzz, tzzz; assommando le caratteristiche delle due specie, i piccoli ruffiani del sottobosco politico-amministrativo, scavano gallerie nel fango per insinuarsi dovunque ci sia qualcosa da brucare e, giunti alle stanze di coloro che contano, vi mormorano il loro insistente tzzz, tzzz a costoro, esercitando la maldicenza, il pettegolezzo e fin la calunnia ai danni di quanti hanno il torto di essere più capaci di loro – e lo sanno bene – per far si che mai questi possano avvicinarsi alle stanze in quanto farebbero loro ombra, anzi toglierebbero loro il nutrimento.

E i potenti? Non li conoscono forse, visto che il grosso di codesti ruffianelli è tralaticio, da una Giunta all’altra e in SPE (Servizio Permanente Effettivo, come i militari di carriera) da un trentennio almeno? Se non li schiacciano con il piede o con la paletta, se non li irrorano con l’insetticida, è segno che stanno loro bene, che ci convivono in buona simbiosi; vuol dire, per uscire di metafora, che la statura morale è identica.

Ne ho conosciuti e ne conosco tanti.

In una Italia per sua natura trasformista, anche ai livelli, per così dire, elevati, che da austriaca o granducale o papalina o borbonica divenne savoiarda; che da cavouriana e liberale divenne di sinistra nel 1876, e poi giolittiana e poi fascista quindi democristiana, uomo qualunquista, centrosinistrista, berlusconiana; che biasimo si può muovere agli unterelli parassiti, nati per vivere ai margini, brillando di luce riflessa?

Non potrò mai dimenticare in epoca democristiana, un’insegnante che, con il suo tzzz tzzz insistente e con telefonate dal Ministero ottenne da me, riluttante, allora Provveditore agli Studi, una lettera di nulla osta per un non meglio identificato suo utilizzo nell’ufficio che fu di Gentile e di Croce; dove la ritrovai, anzi si fece ritrovare, alla prima riunione di Provveditori, gironzolante nei corridoi con un mazzo di ciclostilati sotto il braccio, raggiante di farmi vedere che, nel bel mezzo della riunione, poteva accostarsi al Ministro e bisbigliargli (tanto il microfono era acceso): “ senti … (segue il nome di battesimo del Ministro), per colazione vuoi un tramezzino o due arancini di riso?”.

E non potetti non pensare, lì per lì, ad una forma di psicopatologia che rendeva felice una docente di svolgere mansioni quasi servili, sicuramente non richiestele, ma lietamente offerte al potente, ed ostentarle agli altri; e che la conclamata professionalità andasse pure a fare benedire.

Persone di tale levatura, compresa quella citata, sono ancora in circolazione, riciclate; i loro profili (perché guardano sempre il potente, se lo mangiano con gli occhi, quindi vengono ripresi solo di profilo) imperversano sulle televisioni locali: hanno raggiunto il loro triplice scopo: di sopravvivere alle tempeste politiche, di essere ancora, sia pure di profilo, ancora visibili; di avere, per quanto potuto, tenuto lontani temibili concorrenti.

Che mi direste se vi svelassi che uno di questi bruchi-insetti, rientrata (ma quando mai ne era uscita) nel sottobosco dei comitati o commissioni o consulte esistenti e proliferanti, in tale qualità abbia imposto agli organizzatori di un convegno di studi alcune assenze tra cui la mia quale condizione della sua presenza, dimenticando perfino di aver mendicato ed ottenuto a suo tempo una mia lettere di nulla osta per la sua amabile presenza accanto ad un Ministro della Pubblica Istruzione?

Ma dai bruchi e dagli insetti del sottobosco (non quello reale che amo, ma quello politico che detesto) nulla più della loro viscida presenza e del loro fastidioso tzzz tzzz ci si può attendere.

Preferisco, però,concludere con una metafora di questi “personaggi”, assai più simpatica della mia, uscita dalla penna di Domenico Pittelli, noto avvocato, uomo di cultura ed arguto scrittore, nel volume “Catanzaro d’altri tempi” (1982).

A proposito di “persone da nulla, che valgono quanto, o meno di un cece (in catanzarese ciciaru) di pessima qualità (scocivulu) e che si danno arie” come l’Autore constata osservando: “il dimenarsi, l’affannarsi di tante nullità intellettuali e, spesso anche morali per mettersi in mostra, nelle riunioni pseudo culturali o politiche” producono lo stesso effetto di un cece posto su un tamburo, saltellante al suo rullare, in tutti i sensi; donde l’arguto popolo catanzarese, come riferisce l’avvocato Pittelli, li definiva, nel suo ormai desueto dialetto, “ciciari supra ‘u tamburru”.

Io, allora, concludo: rullate, tamburi: ci sono tanti “ciciari” da far ballare.


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